sabato 4 marzo 2017

Tra Grammatica del gioco e Sceneggiatura delle scelte concrete

Un Dottorato di Ricerca è composto da due differenti anime: una corale, che riguarda le posizioni condivise dalle individualità che si occupano della sua organizzazione e partecipazione al dibattito culturale contemporaneo; e una soggettiva, personale e identitaria, formata dalle singolarità dei contributi che in esso si sviluppano e ne articolano il pensiero.
Riguardo questo secondo punto particolare interesse è rivestito dall’insieme delle dissertazioni che concludono il percorso dei singoli dottorandi e che riescono a dare uno spaccato, anche molto preciso, di dove si sia deciso di spingere la ricerca architettonica nei trienni che hanno accompagnato la stesura di questi elaborati.
Capire le motivazioni che hanno portato alla scelta di questo o quell’argomento di dissertazione è un processo molto complesso ma interessante, che deve tener conto non solamente di motivazioni “esogene” (il tempo, la storia, la “tendenza” dell’architettura contemporanea all’autore) ma, e soprattutto, “endogene”, provenienti dalla individualità del candidato, dal suo imprinting e da come i suoi interessi, in quel preciso momento storico, siano confluiti nel prodotto finale. Proprio l’inquadramento temporale di un lavoro di tesi dottorale consente di non cadere nell’errore di ritenere quest’ultima apice di una carriera di ricerca, ma come uno dei tanti tasselli che compongo un percorso, a volte frammentario, dai risvolti imprevisti e che, spesso, si rivela muoversi verso posizioni differenti da quelle originarie. Il Dottorato va quindi visto, nonostante le contraddizioni di un sistema come quello italiano, quale trampolino di lancio verso obiettivi futuri e non, come purtroppo avviene, percorso destinato all’autoconclusione.
Utilizzando questa differente lente, si riesce a cogliere più nitidamente, l’importanza di ogni singola tesi in un mosaico generale e sviluppare una curiosità verso l’autore, non più semplice nome su una copertina ma parte di un fluire storico di eventi e dinamiche.

Le dissertazioni da me scelte per questa analisi hanno seguito, quindi,  due differenti istanze: da una parte, la necessità di trovare un filo rosso che le legasse ai miei interessi di ricerca e, dall’altra,  la curiosità (specialmente in uno dei due casi) verso la personalità di un autore, prematuramente scomparso, ma che sembra aver lasciato un segno forte in coloro che lo hanno conosciuto, in egual modo colleghi e studenti. Nello specifico i lavori da me selezionati sono:

·   Garofalo Francesco, (1990) L’abaco semplificato delle regole e il confronto con la realtà dell’architettura. Gli scritti e i progetti teorici di Adalberto Libera. (II Ciclo: 1986-1989).
Tesi appartenente alla categoria: Metodi e strategie compositive
·     Rodorigo Paolo, (2009) I media di nuova generazione nel formarsi del progetto architettonico. Cittadinanze attivate dai media digitali. (XXII Ciclo: 2006-2009) Tutor: Professor Antonino Saggio
Tesi appartenente alla categoria: Nuova pratiche generative dal basso


Garofalo Francesco, (1990) L’abaco semplificato delle regole e il confronto con la realtà dell’architettura. Gli scritti e i progetti teorici di Adalberto Libera.

Professore Ordinario di Composizione Architettonica e Urbana a Chieti e coordinatore del Dottorato di Ricerca in Architettura presso lo stesso ateneo, Francesco Garofalo è stato negli anni una figura di riferimento nel panorama architettonico italiano. Un architetto trasversale, completo, egualmente diviso tra l’attività teorica e la riflessione sulla materia architettonica; di lui Pippo Ciorra dice: “si è sempre battuto con tutte le sue forze contro l’isolamento e l’arretratezza di certi aspetti del nostro mondo architettonico, allargando il più possibile i suoi interessi alla scena internazionale, soprattutto inglese, nordamericana, svizzera, giapponese, ma stando bene attento a non fare di questo essere “nel mondo” una manifestazione di provincialismo e disprezzo nei confronti del proprio paese1.
Non stupisce, quindi, che la sua scomparsa, nell’Agosto 2016, abbia generato un grande dolore tra i suoi colleghi, che lo ricordano come architetto “responsabile”, attento alla valenza sociale e politica dell’opera di architettura, e tra i suoi studenti, che lo dipingono come docente rigoroso ma umano, propositivo verso la trasmissione del sapere e, soprattutto, del “saper fare architettura”.

I suoi primi passi nel mondo accademico Francesco Garofalo li aveva mossi proprio nella nostra Università, conseguendo il titolo di dottore di ricerca con una dissertazione sulla figura e le strategie compositive nell’opera di Adalberto Libera.
E’ singolare, scorrendo i titoli delle tesi finali di quegli anni, notare come ci fosse un marcato interesse verso la “grammatica del progetto di architettura”; ci si interrogava sui concetti di “residenza”, di “facciate” e “tecniche d’invenzione”; si prestava una forte attenzione non solo sul prodotto finale della pratica architettonica, ma sui suoi processi, sulla costruzione di una propria sintassi e soprattutto sulla trasmissibilità delle metodologie. Ecco quindi che il Libera che ci presenta Garofalo è il Libera architetto affrancato da chiavi di lettura prettamente storiografiche o ideologiche; ciò che ne viene messo in luce sono la formazione giovanile e la maturazione del suo progettare; il rapporto con i suoi giovani assistenti nel ruolo di docente in varie università italiane e le insanabili fratture tra una sua personale, e rigorosa, visione critica e un mondo in rapida evoluzione.

La dissertazione si articola in cinque parti comprensive di una appendice:

1.      La costruzione del linguaggio; 1925-1928
2.      Dalla forma alla riforma; le ricerche sull’abitare
3.      La trasmissione del metodo
4.      Verso una “urbanistica esatta”; l’idea di città di A. Libera
5.      Appendice: antologia degli scritti di Libera

La mia analisi si soffermerà in particolare su due di queste cinque parti (la numero 1 e la 5) che ritengo fondamentali nella lettura critica di Garofalo e vicine ai temi di ricerca da me affrontanti nel mio iter dottorale.
La prima è una raccolta e studio di documenti, in particolare disegni d’archivio e scritti, con lo scopo di mettere a nudo gli aspetti più specifici della composizione architettonica. L’autore, in essi, rivede come in un laboratorio, la formazione di uno specifico linguaggio architettonico di colui che viene definito un architetto “moderno ma dal cuore antico”.
Libera è, infatti, una presenza singolare nel dibattito architettonico di quegli anni: non parte, come i modernisti nordici, da una tabula rasa degli elementi precedenti, da un ipotetico anno zero dell’architettura, ma si confronta con la contraddizione di essere una personalità fortemente legata alla propria scuola di appartenenza e, allo stesso tempo, proiettata verso l’adesione autonoma e autodidatta a nuovi linguaggi. Garofalo mette in luce come il percorso formativo di Libera sia sempre stato in bilico tra queste due anime; ipotesi confermata dal corpus di disegni dove una selezione di architetture del passato è via via affinata, compresa nella sua natura più intima e trasportata nella contemporaneità attraverso dei loro caratteri ritenuti fondamentali, sottraendo inoltre, i nuovi materiali da costruzione da un uso “puramente strumentale”  verso uno filtrato attraverso una sensibilità classica atta a donar loro nuovi valori. Non ci stupiamo quindi che, a schizzi raffiguranti tipologie classiche, se ne trovino affiancati altri che identificano nuove “tipologie” moderne come il cinema, l’albergo ed i monumenti ai caduti.
A conferma di questa costruzione del linguaggio lo stesso tema del telaio, icona della ricerca comasco-milanese, è da Libera affrontato con una sensibilità personale. Il telaio viene, infatti, liberato da una progressiva astrazione “priva di peso” e legato fortemente ad una espressione del comportamento strutturale di tipo classico dove a dominare è il senso della gerarchia e della rastremazione in funzione di una distribuzione dei carichi verso l’alto.

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 Un altro passaggio fondamentale è la “trasmissione del metodo” di Adalberto Libera. L’autore riesce ad affrontare criticamente sia la metodologia d’insegnamento che la crisi che in età avanzata l’architetto e docente si trova costretto ad affrontare rispetto ad un mondo in costante accellerazione. La forza di questa parte è nell’oggettività tramite cui questa analisi viene affrontata, non solamente attraverso testimonianze grafiche di studenti di quegli anni, ma anche, e soprattutto, grazie alle fonti dirette degli assistenti di Libera a Roma (Manfredo Tafuri, Carlo Aymonino, Vieri Quilici).
 Le informazioni dirette di questi ultimi servono a Garofalo per veicolarci due messaggi fondamentali, uno più diretto e uno più velato: il primo è che nel dialogo tra una nuova generazione e quella precedente sia fondamentale un conflitto creativo, una contrapposizione critica che dia nuova linfa ad un dibattito come quello architettonico sempre bisognoso di nuove proposizione d’invenzione; in secondo luogo la consapevolezza che un metodo non può essere visto come percorso concluso e autoreferenziale ma anzi, per dimostrare la sua validità deve avere la forza di rigenerarsi completamente di fronte alle nuove istanze della modernità.

Rodorigo Paolo, (2009) I media di nuova generazione nel formarsi del progetto architettonico. Cittadinanze attivate dai media digitali.

Il lavoro di Paolo Rodorigo si inserisce in un momento storico-critico completamente differente, rispetto a Garofalo, nell’ambito del nostro dottorato di ricerca: non solo per la evidente distanza cronologica tra la sua opera e quella di Garofalo, ma soprattutto per la sua aderenza al dibattito architettonico che si è ormai spostato in ben’altra direzione rispetto a quella di una generazione precedente.
L’opera di architettura non è più vista come presenza autoreferenziale nella città. Il fallimento del Movimento Moderno e la disgregazione del mondo post-bellico hanno generato la consapevolezza del bisogno di un nuovo tipo architettura che sia in primo luogo espressione non di dinamiche funzionali ma di dinamiche informative; vi è il bisogno di un ritorno ad un momento comunicativo dell’architettura, affinchè essa possa diventare medium di un nuovo tipo di società. Secondo Rodorigo ciò è possibile grazie all’utilizzo delle nuove potenzialità offerte dall’informatica che possono innescare un doppio tipo di cortocircuito: da una parte trasformare l’architettura in un nuovo mezzo di comunicazione di massa (facendone affiorare le valenze culturali ed antropologiche tali da permetterne il confronto con altre espressioni culturali contemporanee); dall’altro, grazie a questa trasformazione, garantire una maggior partecipazione del cittadino al progetto, in una visione che vuole trasmettere l’importanza di ogni singola individualità all’allargamento della sfera pubblica, valutando forme di espressione democratiche alternative o complementari.
La dissertazione si articola in quattro capitoli corredati da un nota metodologica iniziale:

1.      Capitolo 1. Progetto e Partecipazione politica nell’era mediale
2.      Capitolo 2. I rapporti tra architettura e media
3.      Capitolo 3. Nuovi media e architettura condivisa: basi teoriche e analisi di esperienze esistenti
4.      Capitolo 4. Media interattivi e processi 2.0 nell’Informazione del progetto: l’esperienza UrbanVoids 4D Lab

Il filo conduttore che lega i vari capitoli è la certezza che, grazie all’uso delle nuove tecnologie, l’architettura oggi può essere catalizzatore di nuove pratiche dal basso (bottom-up) destinate a cambiare il volto della città contemporanea.  Processi che spingano l’idea di partecipazione, nata a cavallo degli anni Settanta, verso nuovi orizzonti di trasversalità e inclusività.
La volontà è quella di poter ricucire lo strappo identificato tra progetto-città-cittadino-rappresentante e, per poter far ciò, non è possibile ricomporre il puzzle esclusivamente all’interno del progetto solipsista dell’architetto ma considerare centrale nel fare architettura la presenza di coinvolgimenti extra disciplinari (politici, sociologici e antropologici).
Le pratiche partecipative nate del web di seconda generazione (Web 2.0) consentono una bidirezionalità del processo creativo/comunicativo, non delegando la comunità sociale alla tacita accettazione di regole imposte dall’alto ma sviluppando una concertazione che non preveda ovviamente risvolti puramente formali, pena la delegittimazione della figura dell’architetto, ma una maggiore consapevolezza critica delle scelte condivise per il progetto, ipotizzando future trasformazioni dell’intervento compatibili con la volontà degli attori che ne usufruiranno (ne sono un esempio associazioni come “criticalmap” e “friends of the highline” che grazie a queste protesi digitali hanno vinto importanti battaglie altrimenti insostenibili).
Interessanti in questa chiave sono gli apparati progettuali che Paolo Rodorigo costruisce e che vivono di una loro parziale autonomia rispetto alla narrazione principale; come nella più proficua pratica web, infatti, questa opera è da considerarsi un hypertesto, dove è la logica del “salto” a guidare il movimento del lettore; quest’ultimo può seguire il percorso che gli è proposto dall’autore è svilupparne uno suo, letteralmente “saltando” da un contenuto all’altro. Mi riferisco all’Allegato A che analizza l’opera di Samuel Mockbee e di Rural Studio e l’Allegato B che analizza le sperimentazioni all’interno del laboratorio di progettazione IV D del professor Antonino Saggio a “Sapienza, Università di Roma”.
Ad una prima riflessione il lettore disattento potrà pensare che è impossibile mettere a confronto due esperienze così tra loro differenti. In realtà vi sono più punti in comune di quelli che si possono immaginare; è vero che a cambiare sono la dimensione sociale, fisico e storico delle aree preposte all’intervento ma condivisibili sono le strategie alla base che muovono queste operazioni. Tramite un rapporto diretto con la cittadinanza coinvolta vi è una negoziazione delle aree progettuali, un confronto sulle necessità della collettività e le aspirazioni dell’architetto nel proprio intervento; vi è una comunanza d’intenti che è possibile solo grazie alla reciproca comunicazione e alla possibilità dell’architettura di farsi medium di queste nuove sostanze.
Certo, Roma e il Mississippi, appartengono a due geografie tra loro completamente differenti, ma il risultato è lo stesso: disegnare nuovi frammenti di città dove sia la vita a permearne la spazialità e non la logica del profitto o dell’autocelebrazione.

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 Tra Grammatica del Gioco e Sceneggiatura delle scelte concrete

L’analisi di due tesi così differenti tra loro, sia per categoria di appartenenza, sia per la distanza cronologica che inevitabilmente le divide, ha dimostrato come la struttura del corpus teorico e operativo che compone la storia di un dottorato di ricerca è al suo interno ricco e composto da molteplici differenze.
Sarebbe però una visione incompleta quella di omettere la contestualizzazione, nel loro momento storico di appartenenza, di questi lavori, dato che, una buona parte dei motivi strutturanti la loro composizione deriva dall’analisi delle istanze storiche proprie di quel tempo. Se per Francesco Garofalo e la neonata scuola dottorale di Roma era imprescindibile confrontarsi con la didattica e il suo metodo di trasmissione, nell’ottica di un ciclo formativo che potesse formare la classe docente del futuro, per Paolo Rodorigo, appartenente ad un ciclo quasi a cavallo tra il secolo vecchio e il nuovo, era impossibile evitare  una dialettica con le commistioni tra Informatica e Architettura che dominavano (e in parte ancora oggi caratterizzano) il dibattito architettonico di quasi dieci anni fa. Naturalmente non tutte le tesi dei vari cicli dimostrano una tale sensibilità e volontà di immettersi in un dibattito attuale e stratificato, e anzi, molte volte viene preferito il ricorso a tematiche già esplorate e rassicuranti che seppur soddisfacenti in termini di ricerca e metodologia dimenticano l’ineludibile, a detta di chi scrive, necessità di interfacciarsi con le sollecitazioni storiche e ambientali in cui si lavora e si fa ricerca.
Oggi, chi si documenta sulle discussioni all’interno della dimensione italiana, non può esimersi dal constatare che vi è un nuovo interesse verso i temi del progetto operativo ed in particolare della sua didattica. La scuola italiana sente la necessità di fare in modo che alla “teoria” corrisponda una solida fase di “progetto”, che il lavoro critico all’interno dei dottorati di ricerca non sia solo lo specchio di una solida attitudine alla ricerca, ma di un “saper ricercare per poter fare” per ricomporre la scissione che oggi sembra essere sempre più netta tra chi insegna e chi costruisce. In questa chiave ho letto con grande interesse l’opera di Francesco Garofalo, architetto sapiente e solido teorico, che attraverso i propri studi dottorali è riuscito ad elaborare una propria metolodogia di intervento operativo ma soprattutto intensamente trasmissibile, come hanno confermato i ricordi dei suoi studenti che lo rammentano quale eccellente architetto ma soprattutto come straordinario docente.
Negli ultimi due anni sono stato spinto ad interrogarmi su cosa possa essere una “sceneggiatura delle scelte concrete in architettura” (la dizione è per la prima volta usata da Benevolo ma sviluppata da noi in un altro contesto) e su come la mia dissertazione finale su “L’attività ludica come strategia progettuale” possa trasferirsi completamente in una “grammatica del gioco” per il progetto di architettura.
Mi convinco sempre più che la finalità di un dottorato debba essere quella di portare il candidato allo sviluppo di una propria metodologia progettuale e di una sintassi trasmissibile e aperta alla modifica, grazie alla verifica sul campo, liberandosi di un’autoreferenzialità dogmatica che ne acceca i presupposti di ricerca.

 Viviamo in un momento storico in cui, come progettisti, siamo costretti a fare i conti con la nostra storia e gettare un nuovo sguardo critico che ci permetta di proiettarci verso il futuro; rinunciare a questo significa dover accettare implicitamente che siano gli storici ad occuparsi di progettazione e i tecnologi a guidare la fase sintetica del progetto, generando un illogico cortocircuito tra categorie proprie della disciplina e proprie di chi la affronta. Barnham alla metà degli anni Cinquanta attaccava la scuola milanese, e in particolare i BBPR, accusandoli di una loro “ritirata dal moderno”; e se noi progettisti ci stessimo invece “ritirando dalla Modernità”?

NOTE
1.  Ciorra Pippo, (2016) Pippo Ciorra ricorda Francesco Garofalo in ArtTribune. Disponibile all’indirizzo: http://www.artribune.com/progettazione/architettura/2016/08/francesco-garofalo-architettura-ricordo-pippo-ciorra/. Ultima verifica: 04 Marzo 2017
2. Ci si riferisce alla polemica nata alla metà degli anni Cinquanta a seguito della pubblicazione sulla rivista “Casabella-Continuità”, dell’opera Bottega d’Erasmo (1953-1956) ad opera di Roberto Gabetti e Aimaro Isola. A Reyer Banham rispose Ernesto Nathan Rodgers nell’editoriale “L’evoluzione dell’architettura. Risposta al custode dei frigidaires”.

INDICE DELLE ILLUSTRAZIONI
1. Studi sul telaio di Adalberto Libera. Fonte: Archivio Libera
2. Indagine dell'obelisco come oggetto singolo e sua scomposizione in struttura spaziale anche grazie anche al cemento armato come materialeFonte: Archivio Libera
3. Rural Studio – Goat House 1997. Fonte: Ruralstudio.org
4. Mappa del progetto “UrbanVoids: microprogetti sostenibili Lab IV”. Fonte: arc1.uniroma1.it/saggio