giovedì 31 marzo 2016

La sceneggiatura delle scelte concrete

PREMESSA

Nell’epoca della rivoluzione informatica si è resa sempre più protagonista la cosiddetta Architettura Parametrica, che ad oggi trova il suo più convinto sostenitore nella figura di Patrik Schumacher, direttore dello studio Zaha Hadid Architects, che ne sottolinea la cifra stilistica quale architettura d’avanguardia, ma diversi  sono i nomi che indagano le potenzialità degli strumenti digitali sotto diverse declinazioni come ad esempio Norman Foster sulle prestazioni strutturali e bioclimatiche, UN Studio sui modelli topologici, François Roche sui processi biomorfici, Makoto Sei Watanabe sui sistemi infrastrutturali, sono tra i principali.

Questo ramo di ricerca riconosce tra i suoi padri il recente premio Pritzker Frei Otto per il suo approccio rigoroso e scientifico nell’identificare relazioni trasversali al mondo naturale sviluppando per via sperimentale nuovi modelli procedurali che lo condussero a essere tra i primi a considerare la questione dell’ottimizzazione delle risorse disponibili all’uomo. Volgendo lo sguardo più indietro nel tempo una figura di rilievo è identificata in Antoni Gaudì per aver aperto una nuova ricerca prestazionale su base empirica degli elementi strutturali applicata in particolare sugli archi catenari che conformano la Sagrada Familia e che poi troverà eredi in Felix Candela e in Sergio Musmeci.

Ma il vero padre indiscusso di questa branca di ricerca è di scuola italiana e in particolare di natali romani: si tratta di Luigi Moretti, il quale non solo teorizzò l’architettura parametrica sistematizzandone i principi e coniandone il nome ma applicò tali teorie sviluppando metodologie di modellazione in ambiente informatico già dagli anni sessanta. La scelta del termine “parametrica” è rilevante in quanto si oppone in primo luogo all’idea di standard assoluto sostituendovi l’idea di “relazione tra” gli elementi. Si consideri ad esempio il Modulor, che come afferma Le Corbusier aveva “la pretesa di unificare le costruzioni in tutti i paesi”, questa scala metrica era in origine basata su “una taglia piuttosto francese” di 175 cm poi modificata a favore di un’altezza ricavata dai “romanzi polizieschi inglesi” [1] pari a sei piedi ovvero 182,88 cm. 

Già da questo si può comprendere che l’operazione volutamente rinuncia non solo a considerare l’altezza tipica dei francesi ma quella di qualunque popolo non sia inglese, non considera inoltre l’anatomia di persone più alte e persone più basse, esclude le donne, esclude condizioni peculiari come essere incinte, esclude gli anziani, i portatori di handicap e tutta la varietà del mondo umano in favore di una generalizzazione, vale a dire della stretta cima di una campana di Gauss, che costituisce la normalizzazione della società. Si trattava di un’operazione necessaria al tempo ma che appiattiva il mondo e fuggiva la sua complessità. Se si considera di preservare la regola lasciando variabile il parametro di riferimento essa potrebbe però svilupparsi in una sequenza pressoché illimitata di variazioni soddisfacendo svariate esigenze. Questa propensione alla variazione e alla estensibilità ha reso la metodologia parametrica uno strumento importante dell’architettura contemporanea e in particolare a quelle declinazioni che si ispirano al ripiegamento multi prospettico che fa capo a Deleuze.

L’utilizzo di forme dotate di variazioni progressive continue ha condotto erroneamente alcuni critici a ritenere che “architettura parametrica” fosse sinonimo di un nuovo espressionismo e di formalismo quando la sua reale vocazione è di stampo logico-funzionalista, come dimostrano gli stessi metodi generativi strettamente logico-matematici che nella maggior parte dei casi riguardano la risoluzione simultanea di complessi rapporti delle componenti sia strutturali, sia bioclimatiche, costruttive, impiantistiche, ecc. Nell’introduzione a “La Rete della Vita” Fritjof Capra [2] apriva sottolineando che i problemi più seri del nostro tempo sono di ordine sistemico, vale a dire interconnessi e interdipendenti, pertinenti cioè a quella  rete le cui relazioni sono non lineari e in cui ogni alterazione può diventare un anello di retroazione con effetto globale. 

Questa è la ragione per la quale i procedimenti algoritmici di correlazione dei parametri sono divenuti uno strumento di grande interesse per l’architettura contemporanea che desidera affrontare e in un certo senso incarnare la complessità del mondo. Si tenga presente che la stessa etimologia di algoritmo proviene dal nome del matematico arabo al-Khwarizmi nato nel 780 d.C., a cui si devono i natali dell’algebra (dall'arabo, al-ğabr che significa "unione", "connessione"), la tecnologia informatica ha permesso di tradurre questo strumento cognitivo che reifica procedimenti risolutivi attraverso programmi riconfigurabili.
Tale sistema ha liberato le ricerche che ponevano l’accento sul processo allontanando l’ideologia machiavellica del ‘fine che giustifica i mezzi’ che ha tristemente guidato le azioni distruttive degli ultimi secoli e che oggi ci costringe a ripensare il nostro modo di vivere. Come sostiene Bruce Mau: “finchè il risultato guida il processo andremo sempre e solo dove siamo già stati. Se, invece, il processo guida il risultato, potremmo non sapere dove stiamo andando ma sapremo di essere nella direzione giusta”. [3]

MAKOTO SEI WATANABE




“Progettare senza la mano, progettare con il cervello”. [4]

Per capire l’importanza dell’opera di Watanabe all’interno del paradigma dell’architettura algoritmica è necessario cambiare l’oggetto di indagine usuale della critica architettonica: dall’oggetto al processo. In quest’ottica concetti come quelli di algoritmo genetico, processi generativi, scienza della complessità e programmi di reti neurali assumono un ruolo centrale per la comprensione del metodo progettuale dell’architetto giapponese. 

Lo strumento fondamentale per il processo generativo di questo tipo di architettura è chiaramente il calcolatore automatico: le possibilità di elaborazione che offre il computer sono necessarie allo sviluppo di progetti che si concentrino su processi generativi che procedono per cicli iterativi. Questo ovviamente non vuol dire che sia il calcolatore a generare il progetto: è sempre la mente dell’architetto che genera gli algoritmi che, a loro volta, danno luogo ai processi che determinano lo spazio. Il computer è uno strumento di calcolo eccezionale ma, senza gli input del progettista, non è capace di generare una forma compiuta, un progetto funzionante. 

“L’idea non è automatizzare la progettazione. Non si tratta di diventare capaci di completare un progetto con un clic del mouse. Lo scopo è chiarire aspetti del processo che finora restavano indeterminati, in modo da comprendere meglio ciò che si vuole davvero. Si tratta di ottenere una qualità superiore, non una maggiore efficienza. Vogliamo che sia migliore, non più veloce.” [5]

La grande chiarezza con cui Watanabe espone e codifica i cardini dell’architettura parametrica assume ancora maggiore rilevanza se si considera che la sua attività progettuale precede di almeno dieci anni l’inizio delle teorizzazioni degli altri grandi attori della scena architettonica. Se il progetto per Sun-God City è del 1994, infatti, il manifesto di Patrik Schumacher, Parametricism as Style, è del 2008. Contemporaneamente alla sperimentazione progettuale Watanabe ha sempre portato avanti un lavoro di sistematizzazione teorica che è iniziata nel 2002, anno in cui è stato pubblicato Induction Design. Riflettere sulle date può essere utile per una seconda considerazione di grande importanza: gran parte dell’architettura parametrica contemporanea è prodotta attraverso Grasshopper, uno script per il famoso software di modellazione 3D Rhinoceros, che è un vero e proprio linguaggio di programmazione visuale (VPL ne è l’acronimo inglese); ma la prima edizione di Grasshopper è stata sviluppata da Robert McNeel & Associates solo nel 2007. Tutti i lavori di Watanabe, in effetti, non si appoggiano su nessuno script, ma sono generati da software specifici, sviluppati dall’architetto e dal team con cui lavora. Sebbene possa sembrare un elemento secondario, il fatto che lo studio di Watanabe utilizzi software specifici per ogni singolo progetto aiuta a sciogliere un’ulteriore ambiguità: è sufficiente che un’architettura adoperi una sintassi ed un linguaggio anamorfici per essere considerata parametrica? La risposta, chiara a chiunque abbia operato nel campo del digitale con cognizione di causa, è no. In effetti le forme anamorfiche generate dai software di grafica sono generate secondo una logica scultorea, seppur digitale. 

In questo senso possiamo affermare che, sebbene il calcolatore velocizzi drasticamente il processo, questi processi di generazione formali potrebbero essere anche eseguiti attraverso modelli fisici. “Da un punto di vista logico, nulla più dell’architettura è adatto a essere progettato in maniera tradizionale, compiendo studi su modelli” [6] . La grande differenza tra un processo generativo tradizionale ed uno parametrico ha ancora a che vedere con l’interscambio tra oggetto e processo. Nella progettazione parametrica l’oggetto del progetto non è l’architettura, ma il processo stesso: i programmi che generano i progetti di Watanabe non scelgono semplicemente il progetto migliore tra i possibili, ma scelgono l’algoritmo che genera questo progetto. Le conseguenze di un simile cambio di oggetto sono facilmente intuibili: conservando traccia dell’algoritmo che genera il progetto, quest’ultimo non è più un’entità statica, cristallizzata per sempre, ma solo un’istantanea di un processo su cui è sempre possibile intervenire. Esiste un ultimo equivoco che è necessario eludere per essere certi di avere compreso tutti i termini del ragionamento: osservando alcune delle opere di Watanabe appare evidente l’analogia formale delle sue composizioni con quelle del mondo naturale, ma, con le parole dello stesso architetto, “usare la teoria del caos ed i frattali non vuol dire creare forme simili agli attrattori di Lorenz, od ai contorni frastagliati. Non è la forma ma il processo che contribuisce al progetto”. [7]

È una nuova generazione architettonica, una generazione in cui “il computer è un’estensione del cervello”. [8]

LA SCENEGGIATURA DELLE SCELTE CONCRETE

Se alla metà del secolo scorso Louis Kahn, in un mondo dilaniato dalle atrocità della guerra, reduce dalla caduta delle ideologie, si domandava: “cosa vuole essere quest’architettura”, aprendo il dibattito verso nuovi orizzonti comunicativo-simbolici del sapere architettonico, oggi è possibile porsi un nuovo interrogativo che ribalta completamente il nostro modo di guardare il mondo. Le innovative ricerche di alcuni gruppi di architetti ci consentono, infatti, di immaginare rivoluzionari protocolli basati sulla commistione tra tecnologie informatiche ed esperienza inconscia dove l’elemento catalizzatore è la possibilità del calcolatore elettronico di trascrivere codici eterogenei. È una visione della macchina non di deleuziana memoria, pensata solo per produrre energia, ma come nuovo artefatto in grado di creare, scambiare ed elaborare informazione. Per la sua capacità di divenire piattaforma di scambio questa diventa il tramite attraverso cui portare il regno della natura, o dell’esperienza umana, all’interno dell’architettura. La domanda che oggi possiamo, e dobbiamo porci, non è, quindi, quale significato un’architettura possa avere ma “cosa quest’architettura vuole diventare”.

È proprio questo nuovo interrogativo che ha guidato il nostro operare mentre ipotizzavamo nuovi orizzonti per le opere di Watanabe. Si è riflettuto sulla possibilità di guardare ad un’architettura che non fosse la cristallizzazione di una delle progressive iterazioni generate da una logica algoritmica relazionale, ma un sistema vivo ed interagente che, come un organismo vivente, si modificasse secondo le condizioni dell’ambiente che la ospita e di coloro che interagiscono con essa. 
In quest’ottica si è scelto di operare su delle scacchiere ibride, sviluppate attraverso l’uso di software generativi parametrici e sistemi interattivi su base Arduino e Kinect. L’utilizzo di questi strumenti è stato necessario per la rielaborazione e comprensione delle opere di Watanabe in quanto generate anch’esse da una logica algoritmica, la quale consente di sviluppare una famiglia di progetti rispondenti alle condizioni contestuali, ai vincoli imposti e alle esigenze espressive. In particolare abbiamo ritenuto interessante affrontare lo studio di due progetti, uno che analizzasse le implicazioni di tale logica nell’ambito di un processo urbano, Sun-God City, ed uno che affrontasse la questione infrastrutturale e architettonica, la stazione di Iidabashi. 

SUN-GOD CITY (1994)




L’intero progetto si muove a partire da due criticità: l’eccessiva densità del tessuto delle grandi metropoli nipponiche e l’esigenza di fornire a ciascuna abitazione un apporto ottimale di luce naturale. Gli elementi posti in gioco sono dunque il vettore della luce solare e la forma primaria del cubo; le motivazioni che hanno portato alla scelta di questa geometria di base sono la sua semplicità, che consente quindi una maggiore velocità di elaborazione da parte dei calcolatori elettronici, e il fatto che la linearità della primitiva non attira l’attenzione sulla forma e quindi consente una maggiore leggibilità delle scelte processuali che guidano il sistema iterativo. L’obiettivo dell’intera operazione era quello di generare un blocco abitativo con un indice di densità fondiaria congrua alla sua localizzazione urbana ma allo stesso tempo con un grado di porosità sufficiente a soddisfare le esigenze della singola unità e a generare al contempo nuove possibilità di relazione tra le funzioni da una parte e gli spazi comuni dall’altra. 
Entriamo ora nel processo che sottende all’opera. Watanabe parte da una sovrabbondanza di unità volumetriche cubiche in cui induce una progressiva rarefazione secondo i tracciati descritti dal movimento del vettore d’illuminazione naturale (effemeridi solari) che aumenta il grado di porosità del conglomerato edilizio/urbano sino a soddisfare il requisito iniziale. Contemporaneamente l’algoritmo definisce anche le aperture di ogni singola unità, generate anch’esse da posizioni significative del vettore solare. Nel processo di Watanabe quindi, lo spazio, sia esso pieno o vuoto, assume la medesima importanza: il positivo e il negativo si compenetrano nella creazione di un’unità spaziale in cui ombra e luce sono perfettamente bilanciate nel loro rapporto.




Nella realizzazione della scacchiera digitale ispirata al suddetto progetto si è presa in considerazione una superficie limitata ma caratterizzata orograficamente, sulla quale le unità abitative, rappresentate come cubi, si densificano o rarefanno in funzione del diagramma solare di una specifica località (Roma), catturato in tempo reale, e da un sistema di cinque fotoresistori in parallelo collocati su una scheda Arduino, i cui valori influenzano sensibilmente posizione, orientamento e volumetria delle stesse unità. Rispetto al processo originario di Sun-God City abbiamo implementato il grado di flessibilità, aggiungendo oltre al fattore fisico anche un fattore di personalizzazione: il sistema di fotoresistori simula la possibilità di ogni singolo abitante di ricevere la qualità e quantità di luce desiderata. 





L’algoritmo consente ad uno dei residenti, sia esso ad esempio un lavoratore notturno e che preferisce quindi di avere un apporto solare minimo nelle prime ore del mattino, in cui di solito dorme, di avere un apporto solare massimo nel pomeriggio.
Dal punto di vista tecnico, per la realizzazione di questa scacchiera è stato necessario l’utilizzo di una scheda Arduino attraverso cui recepire l’intensità luminosa dai cinque sensori e convertire tale dato in un’informazione spaziale e volumetrica. Queste informazioni vengono processate dal software Grasshopper andando a influenzare in particolare la forza e la posizione di punti attrattori, vale a dire punti notevoli che come un campo di forza respingono o attraggono le entità geometrica che si muovono sulla superficie. Nello spirito con cui abbiamo interpretato questo progetto, un maggiore apporto di luce sui fotoresistori viene interpretato come una maggior richiesta di luce in una posizione specifica, generando una maggiore rarefazione attorno all’attrattore collegato al fotoresistore più intensamente sollecitato.







STAZIONE DI IIDABASHI (2000)




Si tratta di una stazione della metropolitana di Tokyo che il progettista stesso definisce come una versione olografica della metropolitana di Tokyo. Il progetto si compone di tre elementi principali: la struttura spaziale delle banchine e dei sistemi di risalita in superficie, un sistema impiantistico articolato dai tubi saldati raccoglie e accompagna il flusso di utenti integrando anche le componenti impiantistiche e risolvendo l’articolazione spaziale e volumetrica, culminando infine con una inflorescenza artificiale, che rappresenta il terzo elemento del progetto. Questa costituisce la torre di ventilazione la cui struttura complessa è a sua volta il risultato di un programma di ottimizzazione strutturale che considera i diversi materiali e le differenti sezioni e superfici che entrano in gioco sfruttando al massimo le prestazioni della struttura tridimensionale.

Dal momento che il percorso che qui cerchiamo di compiere è quello che conduce all’estrapolazione di un metodo progettuale trasmissibile, e dal momento che i diversi elementi del progetto sono generati da software differenti, abbiamo focalizzato la nostra attenzione sull’elemento impiantistico reticolare che accompagna i sistemi di risalita dei passeggeri. La ragione di questa scelta è duplice: da una parte il sistema reticolare è quello a più stretto contatto con l’utenza e dunque quello che maggiormente si presta a elaborazioni di tipo evolutivo, dall’altra risulta essere un elemento catalizzante nell’intera progettazione. Infatti, a ben vedere, l’intero sistema della stazione metropolitana è realizzato mediante un sistema espressivo quasi brutalista, in cui il progettista rinuncia a qualunque sovrastruttura linguistica in favore di un ruolo prominente proprio della struttura impiantistica, che è infatti l’unica a cui l’architetto affida l’istanza estetica e caratteristica dello spazio, conformandosi in un elemento iconico. 




Dal punto di vista processuale l’operazione di progetto si divide in due fasi. Nella prima un software (Web Frame) genera una struttura reticolare che sia caratterizzata da un alto grado di rigidità, un alto grado di discretizzazione degli elementi e che possa incorporare un certo livello di “rumore”, o fattore caos. Questa prima fase è denominata da Watanabe “hard regulation”, ovvero un sistema che regola i parametri costruttivi fissi, come numero degli elementi, angolo di connessione e superfici utile da occupare. Nella seconda fase questa maglia si flette e si articola sia in relazione alla struttura spaziale dei tunnel di risalita sia per rispondere alla più rilevante condizione del passaggio degli utenti. Questo sistema funziona come un mantice che accoglie e spinge gli utenti attraverso lo spazio, verso l’uscita. La conformazione spaziale di questo manto è ottenuta attraverso un sistema definito dal progettista “soft regulation” e che è rappresentato come un insieme di sfere di diverse dimensioni che sono in realtà campi di forza che, in maniera quasi pneumatica, deformano questa maglia altrimenti rigida. 





L’analisi delle logiche costitutive della stazione di Iidabashi ci ha spinto a riflettere sulle possibilità evolutive di questo sistema, che ruotano attorno agli utenti e alla presenza fisica; in tal senso le sfere rappresentate da Watanabe hanno una forte corrispondenza con quelle che Edward Hall definiva “sfere prossemiche”. Esse costituiscono ambiti spaziali fisicamente misurabili che hanno qualità di ordine psicosociale definendo e influenzando 4 zone che Hall chiama: lo spazio intimo, lo spazio personale, lo spazio sociale e lo spazio pubblico. 






La scacchiera che abbiamo realizzato utilizza un sensore Kinect, il quale è in grado di catturare una sequenza di movimenti del corpo umano il cui progressivo inviluppo genera una superficie. Un ulteriore algoritmo realizza poi, una discretizzazione di elementi reticolari a formare la struttura della stessa superficie, che è continuamente riconfigurabile a partire dal primo algoritmo e quindi da nuovi movimenti. Immaginando ora di avere una serie di sensori Kinect collegati lungo il tragitto del tunnel metropolitano e associando ad ogni passeggero la propria sfera prossemica, il progetto di Watanabe si arricchisce di nuove ed affascinanti prospettive, aprendo la strada ad una struttura completamente responsiva, e quindi infinitamente riconfigurabile, un modello operativo dinamico in continua relazione ai flussi umani con i quali entra in contatto.







IMPLICAZIONI FUTURE

“Ciò che è veramente inquietante non è che il mondo si trasformi in un dominio completo della tecnica. Più inquietante è che l’uomo non sia preparato a questo radicale mutamento. Ed ancora più inquietante è che non siamo capaci di raggiungere, attraverso un pensiero meditativo, un adeguato confronto con ciò che sta realmente emergendo nella nostra epoca” [9]

Il percorso intrapreso in questo testo ha progressivamente dimostrato come le continue ricerche nel campo del parametrico abbiano pervaso, in modo sempre più deciso, il dibattito architettonico degli ultimi quarant’anni. Di fronte alle implicazioni della Rivoluzione Informatica e alle continue sperimentazioni in tali direzioni, il mondo degli architetti, infatti, si è sempre più progressivamente diviso tra coloro che hanno tentato di trasformare la nuova crisi in valore e coloro i quali, in modo reazionario, hanno declinato l’invito a confrontarsi con le nuove potenzialità offerte dall’Information Technology.

Watanabe è stato, a nostro giudizio, uno dei precursori di un modo nuovo di intendere il rapporto tra Architettura e Informazione. Il maestro giapponese, nella sua infaticabile ricerca, ha dimostrato come siano possibili nuovi orizzonti di sperimentazione in architettura proprio tramite la manipolazione dell’Informazione e una logica induttiva per processi e progressive iterazioni che possa “rendere manifesto ciò che è nascosto” [10], portando al livello cosciente ciò che avviene nel pensiero dell’individuo, del sistema sociale e quindi del sistema infrastrutturale, immaginando la macchina realmente come un’estensione attiva della mente in grado di decodificare linguaggi quasi in un isomorfismo sintattico uomo-macchina.

Le implicazioni future per l’architettura parametrica sembrano spingere fortemente verso l’idea, precedentemente espressa, di un’architettura viva ed interagente con il contesto, un’architettura che non solo “vuole essere”, ma che aspira a diventare qualcosa di nuovo.
Pensiamo al caso di François Roche e del suo gruppo New Territories, col quale ha sempre inseguito il desiderio di un’architettura lontana da ogni schema intellegibile e senza alcuna volontà rappresentativa, nella quale la componente formale non fosse momento di partenza ma arrivo di un susseguirsi di iterazioni successive legate non da una componente “meccanica” dell’edificio, ma in relazione ai suoi comportamenti vitali. Un’architettura come sistema vivente quindi che, secondo quanto teorizzato da Varela e Maturana [11], rispetti due condizioni cruciali: la coesistenza delle componenti del sistema in un’organizzazione relazionale chiusa, sebbene aperta a scambi esterni necessari; la possibilità per tali componenti di distruggersi e rigenerarsi, mantenendo però l’identità del sistema stesso. 

Ciò avviene nel progetto dell’Olzweg in cui il robot è più di un agente regolatore, è un cleaning fish, che pulisce uno spazio e ne restituisce un altro, elaborando un sistema di iterazioni possibili e varie (ad esempio il rumore delle automobili); lo spazio che esso produce nel tempo non è assolutamente casuale ma il più possibile corrispondente a quello che le informazioni definiscono. Il visitatore è libero di muoversi in un ambiente fisico che è sempre più plasmato rispetto ai suoi sogni e alle sue attese e che può scoprire solamente immergendovisi totalmente. Tutto ciò è possibile grazie alle potenzialità dello script, che può descrivere infinite operazioni possibili in un’idea di città che viene definita “emergente”, non condizionata da processi decisionali subordinati ad un’autorità precostituita e che elabora una serie di biofeedback raccolti tramite dei nanorecettori presenti nell’aria.
Roche nella sua ricerca si scaglia contro l’assenza di rumore nel mondo delle procedure algoritmiche tradizionali che non sono grado di rinnovare i propri domini semantici e lavorano sempre sullo stesso codice trovando la loro debolezza proprio in questo determinismo. Il passaggio nel suo lavoro è epocale, si passa dalla mente assimilabile ad un computer della scienza cognitiva degli anni ’70 ad una radicata nel contesto e profondamente radicata nel corpo (embodied).

Ed è proprio l’assenza di rumore che insegue ancora il gruppo ORAMBRA con il suo obiettivo di oltrepassare il confine tra mondo fisico e mondo digitale. Basandosi sull’assunto di Yona Friedman che già negli anni Sessanta, affermava che il più grande limite degli architetti era quello di costruire per un occupante sconosciuto, questi architetti di Chicago, guidati da Tristan d’Estrée Sterk tentano proprio di far sì che ciò non accada. Non è più l’idea che la “forma segua la funzione” a dominare le scelte dell’architetto ma che la “forma segua i desideri”, di coloro che vivono, abitano e attraversano gli edifici. Il loro lavoro si concentra su strutture “tensegrity” che, controllate da un sistema digitale, si modificano a seconda delle condizioni che, ambientali, di flusso, energetiche che l’edificio è chiamato a soddisfare. 

Ci stiamo avvicinando sempre più a quella “Transarchitettura” che Marcos Novak già teorizzava negli anni 2000 e grazie alla quale auspicava la fusione di due mondi, all’epoca così distanti come quello digitale e quello reale. Pioneristicamente egli parlava di “transvergenza” come l’atteggiamento prospettico di un nuovo modo di progettare, che supera i concetti di divergenza e convergenza seguendo un vettore perpendicolare in grado di generare una terza via, che Novak indica come “produzione dell’estraneo “. La ricerca di Novak ci porta a rapportarci col fenomeno della “eversione”, ovvero la possibilità offerta dalle tecnologie digitali e dalle nuove tecniche di prototipazione, di portare le sperimentazioni morfogenetiche generative, realizzate nel cyberspace, a coagularsi nella realtà, attraverso modalità flessibili. La sua è un’architettura iper-estesa, che spinge travalica la propria funzionalità perfino a superare i limiti stessi della struttura e della forma.
La sfida di proporre una propria “Sceneggiatura delle scelte concrete in architettura” ci ha condotto a riflettere su universi complessi, su galassie lontane che stanno influenzando sempre di più il mondo della nostra disciplina e i suoi futuri sviluppi, dei quale non può la nostra sensibilità di giovani architetti non tener conto. L’uso del digitale nel tentativo di liberare una sintassi architettonica facilmente trasmissibile non è stata decisione mossa da un mero uso strumentale dell’apparato tecnologico oggi a disposizione ma un tentativo di dimostrare come oggi l’Architettura possa rispondere a domande profondamente rivoluzionarie e con implicazioni formali e strutturali completamente differenti a quelle del passato. La nostra idea è stata quella di orientare il nostro sguardo ad un futuro che per reificarsi ha bisogno della costruzione di un nuovo pensiero: il pensiero dell’informazione, che cambia secondo le angolazioni dei punti di vista e dove tutto è in-formazione, tutto è correlato, perché, citando il fisico Fritjof Capra:

“Nella teoria dei quanti non si termina mai con “cose”, ma sempre con interconnessioni. […] Quando penetriamo dentro la materia, la natura non ci mostra alcun isolato mattone da costruzione, ma piuttosto una complicata ragnatela di relazioni esistenti tra le varie parti di un unificato intero.” [12]

Selezione Bibliografica
Converso S., Il progetto digitale per la costruzione. Cronache di un mutamento professionale, Maggioli Editore, Sant'Arcangelo di Romagna (RN), 2010
Di Raimo A., François Roche. Eresie meccaniche e architetture viventi di New-Territories.com, Edilstampa, Roma, 2015
Giràrd C., Makoto Sei WatanabeEdilstampa, Roma, 2007
Hall E.T., The Hidden Dimension, New York, 1990
Heidegger M., Pensieri-guida sulla nascita della metafisica, della scienza contemporanea e della tecnica moderna. Testo tedesco a fronte , BompianiMilano, 2014
Hall E.T., The Hidden Dimension, New York, 1990
Mau B., An incomplete Manifesto for Growth, 1998
Saggio A., Introduzione alla Rivoluzione Informatica in Architettura, Carocci, Roma, 2007
Saggio A., Architettura e Modernità. Dal Bauhaus alla Rivoluzione Informatica, Carocci, Roma, 2010
Watanabe M.S., Induction Design. Un metodo per la progettazione evolutiva, Testo&Immagine, Roma, 2004

Note
[1] Le Corbusier,  Il Modulor. Saggio su una misura armonica a scala umana universalmente applicabile all'architettura e alla meccanica, Gabriele Capelli Editore, Mendrisio, 2004, P.56
[2] Capra F., La rete della Vita, BUR, Bergamo 2005
[3] Mau B., An incomplete Manifesto for Growth, 1998
[4] Watanabe M.S., Induction Design. Un metodo per la progettazione evolutiva, Testo&Immagine, Roma, 2004
[5] Ibidem
[6] Ibidem
[7] Giràrd C., Makoto Sei WatanabeEdilstampa, Roma, 2007
[8] Watanabe (2004)
[9] Heidegger M., Pensieri-guida sulla nascita della metafisica, della scienza contemporanea e della tecnica moderna. Testo tedesco a fronte BompianiMilano, 2014
[10] http://www.makoto-architect.com/subway/subway_2e.html
[11] Di Raimo A., François Roche. Eresie meccaniche e architetture viventi di New-Territories.com, Edilstampa, Roma, 2015 P.73
[12] Capra F., La rete della Vita, BUR, Bergamo 2005



Matteo Baldissara
Valerio Perna
Gabriele Stancato

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